«NON C’È FUTURO PER L’AZIENDA CHE NON INVESTE NELLA FORMAZIONE», IL DIRETTORE DEL FAPI BRUNO DI PIETRO OSPITE DI CONFAPI PADOVA

«NON C’È FUTURO PER L’AZIENDA CHE NON INVESTE NELLA FORMAZIONE», IL DIRETTORE DEL FAPI BRUNO DI PIETRO OSPITE DI CONFAPI PADOVA

Il direttore generale del Fondo Fapi Bruno Di Pietro: «Padova guida la crescita in Veneto, trainando anche le altre province».

 

Più di 280 mila lavoratori aderenti, in rappresentanza di 36 mila imprese. Sono i numeri che testimoniano la buona salute del Fapi, il fondo interprofessionale paritetico costituito da Confapi, CGIL, CISL, UIL, al fine di promuovere lo sviluppo della Formazione Continua. Li ha snocciolati l’avvocato Bruno di Pietro, suo direttore generale, in occasione della sua prima visita a Padova in occasione del convegno “Strumenti e strategie per la crescita del capitale umano” ospitato nella sede di Confapi di via Salboro. Proprio Di Pietro è stato il relatore principale di un incontro voluto per presentare i principali strumenti a disposizione delle imprese per finanziare le attività di trasferimento di competenze e conoscenze nell’organizzazione aziendale. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.

Direttore, partiamo proprio dal “pretesto” per questa intervista: come mai questo incontro?

«L’incontro è stato diviso in due parti. Abbiamo focalizzato la prima sulla realtà nel territorio veneto, cercando di offrire un prospetto relativo alla situazione nella regione», sottolinea. «A riguardo va detto che proprio il territorio padovano tiene in piedi il sistema, guidandolo e continuando a crescere: l’attività di Veneto Più e Confapi Padova traina tutta la regione doppiando le altre province. Nella seconda parte dell’appuntamento ci siamo soffermati sugli aspetti tecnici, illustrando quali sono i principali strumenti messi a disposizione dal Fapi nelle attività di formazione, oggi stabilizzata su avvisi generalisti, per aggregati di rete e piani a sportello, che, nello specifico, sono quelli che seguono le necessità del momento, come è accaduto nel periodo della pandemia, legandosi ad esempio all’emergenza sanitaria o al Fondo Nuove Competenze».

Il Fapi promuove un sistema solidaristico che permette anche alle aziende più piccole di poter accedere alla formazione attraverso strumenti come avvisi e reti. Parlando di cifre: quanto riuscirete a mettere a disposizione delle aziende nel 2023?

«Mi piace ricordare che nel decennio compreso fra il 2011 e il 2021 abbiamo finanziato progetti formativi per 136 milioni di euro. Il nostro bilancio annuale si aggira tra i 12 e i 14 milioni: sono 12 al netto del prelievo forzoso, che è appunto di circa 2 milioni da parte del Governo. Normalmente il 20% del totale è destinato alla “gestone della macchina” Fapi, tra spese di funzionamento e propedeutiche, mentre l’80% è indirizzato alla formazione. Di prassi sono circa 11 milioni, ma nel 2023 la previsione è che si possa destinare alle imprese una cifra più alta, intorno appunto ai 12. La programmazione viene svolta su base trimestrale, tenete poi presente che gli avvisi generalisti usufruiscono di circa 8 milioni sul totale».

Il mondo della formazione si evolve rapidamente e i campi di applicazione sono sempre più vasti, anche perché lo stesso mondo è cambiato, e mutato è il modo di fare impresa. Oggi la formazione continua rappresenta l’anello di congiunzione tra chi vuole crescere e un mercato sempre più selettivo e professionalizzato. Per quanto concerne il Fapi, certo, parliamo di strumenti efficaci e che esistono da anni: ma oggi sono ancora la risposta più puntuale alle difficoltà che incontrano le aziende, soprattutto considerando come il mondo, dopo la pandemia, è diverso?

«Questo ventaglio di proposte variegate è uno dei punti di forza del Fapi e ci consente di far fronte alle esigenze formative di un mondo in evoluzione, in cui la pandemia ha avuto un ruolo importante ma in cui le trasformazioni dei processi produttivi già stavano tracciando nuovi scenari e lanciando nuove sfide alle politiche di formazione continua. Vero è che le criticità non mancano. Ci sono territori che soffrono più di altri il gap esistente tra le loro richieste - formulate attraverso gli avvisi generalisti - e il finanziamento della formazione: ne consegue che i piani che riusciamo a finanziare sono inferiori alle esigenze effettive delle aziende, che hanno capito quanto sia fondamentale investire sul capitale umano per essere competitive. È un problema, però, legato al budget di bilancio, su cui non possiamo avere un’operatività maggiore di quella che abbiamo oggi. Per contro, è vero anche che almeno da un paio di anni a questa parte - diciamo da quando abbiamo dovuto fare i conti, appunto, con la pandemia - i piani di rete, basati sullo sviluppo territoriale di quelli che possiamo definire come dei mini distretti industriali, hanno riscontrato un forte impulso: si tratta di uno strumento che sta riscuotendo grande interesse, registrando numeri molto anni, e che ha la possibilità di essere sviluppato nel tempo, con incrementi e consolidamenti successivi, fatto, quest’ultimo, che costituisce un indubbio punto di forza. Da parte nostra, stiamo curando in modo particolare i piani di rete che utilizzano gli aggregatori del territorio, anche perché sono nati proprio con noi e rispondono perfettamente a quella che è la natura solidaristica del nostro fondo».

È ipotizzabile che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza possa avere un impatto a breve termine sui Fondi interprofessionali?

«È prematuro parlare di cifre a disposizione e della loro possibile implementazione, perché la questione si interseca con il nuovo bando del Fondo Nuovo Competenze dell’Anpal, al momento in attesa del via libera dalla Corte dei Conti. Di sicuro, però, il PNRR è destinato a impattare su due linee di sviluppo: quelle del Green e dell’Information technology. Vedremo se le risorse e la modalità della gestione degli interventi saranno sufficienti a recuperare il gap con le altre nazioni e porre le basi per un sistema nazionale più competitivo. A riguardo il compito del Fapi è quello di tarare i suoi strumenti formativi - e quindi, in buona sostanza, i suoi avvisi - all’interno delle due direttive. Resta il fatto che dobbiamo fare i conti con le risorse a disposizione e che alcune aziende non sono ancora pronte per affrontare questo tipo di percorsi, che prevedono un alto livello di innovazione. Ne consegue che la domanda, oggi come oggi, non può essere “come verrà utilizzato il PNRR negli avvisi?”. Piuttosto, occorre capire come il PNRR andrà interpretato per creare percorsi che tra qualche anno ci possano far dire che, attraverso gli strumenti di formazione, gli imprenditori hanno acquisito un habitus mentale in grado di aggiornarsi nel tempo».