CRISTIAN CAMISA, PRESIDENTE NAZIONALE DI CONFAPI, SOLLECITA UNA PAUSA DELLE REGOLE PRO AMBIENTE. «MELONI AMICA DI TRUMP TROPPO REMISSIVA? NON POTEVA FARE DI PIÙ»
PIETRO VISCONTI
Dall’incubo dei dazi possiamo uscire economicamente ancora in piedi, ma a due condizioni: primo, sottoporre l’Unione europea a una drastica dieta sulle normative ambientali a carico delle imprese; secondo, potenziare il sostegno strutturale al nostro export in termini di servizi comuni agli esportatori italiani. Sono cose da fare al galoppo. Molto problematico, ai limiti dell’illusorio, puntare su sbocchi alternativi agli Stati Uniti come rimedio alla botta di Trump: per vendere in modo significativo in nuovi mercati occorrono anni e anni. Qualcosa di importante, al di là delle bufere politico-commerciali, su questo fronte si sta per la verità già facendo: dall’Argentina all’Uzbekistan una serie di missioni promosse dal governo cercano di accreditare le nostre aziende con voglia di farsi largo nel mondo, ma il punto è che per avere risultati ci vorrà tempo. E tempo ora non ce n’è (come sottolinea il caso Tecnoforge raccontato ieri dal nostro giornale).
Così Cristian Camisa tratteggia l’effetto dazi dal vertice nazionale di Confapi, l’associazione che rappresenta 116mila piccole e medie imprese. Camisa non immaginava certo, quando nel 2022 ha fatto il salto dalla presidenza di Piacenza all’incarico a Roma, di trovarsi alle prese con una grana di portata storica come la fiammata protezionistica degli Stati Uniti del Trump 2. Gli antidoti al nervosismo degli associati non sono semplici. «Passo da un’assemblea all’altra su e giù per l’Italia - dice il presidente di Confapi a “Libertà” - e avverto grande preoccupazione. Lo sforzo è incanalare i timori in risposte raziocinanti».
Presidente Camisa, un passo indietro per valutare l’accordo Trump-Von der Leyen in Scozia. I dazi sull’Europa al 15% per la nostra premier Meloni sono un peso “sostenibile” mentre per il premier francese Bayrou equivalgono a un atto di “sottomissione” della Ue. Con quale lettura si sente più in consonanza?
«Indubbiamente è stata una vittoria politica di Trump. Quel che ha detto ha fatto. L’Europa è riuscita soltanto a limitare i danni. È peraltro superficiale focalizzarsi soltanto sui dazi».
E a cos’altro bisogna porre attenzione?
«In pochi mesi il dollaro si è deprezzato del 13%. Gli importatori americani hanno perso potere d’acquisto. C’è un muro evidente a tutti, i dazi, e un altro meno percepito, il cambio. La somma dei due fattori penalizza fortemente la competitività del nostro export. E c’è un terzo problema, dietro l’angolo».
Qual è il terzo problema?
«Vediamo come si concluderà la contesa Usa-Cina. Dazi alti contro la Cina sospingerebbero masse enormi di merci cinesi, impossibilitate ad approdare in America, verso il mercato europeo. Sarebbe un’altra spallata tremenda».
Chiediamoci perché siamo finiti alle corde. C’è un dato evidente: nella contesa con Trump l’Europa non ha fatto pesare il suo potenziale economico e politico, è sembrata sempre in difesa. Come si può spiegare tanta remissività?
«Il problema principale è che l’Europa non ha capacità adeguata di reazione. Usa e Cina decidono in un lampo, noi abbiamo tempi elefantiaci. La velocità dei cambiamenti ci spiazza. Se non capiamo questo, rimarremo un continente carico di storia e cultura ma destinato a rincorrere invece che stare alla pari degli altri giganti politico-economici».
Come incide questo sentimento di ‘minorità’ nel mondo delle imprese, soprattutto piccole imprese, di cui lei ha il polso ogni giorno?
«Soprattutto nella fase del limbo, quando non si sapeva quale sarebbe stato il livello dei dazi, la tensione è stata altissima. Molti investimenti sono stati bloccati in attesa almeno di sapere quanto sarebbe stata alta la barriera per esportare negli Usa».
Quindi il 15% è una stangata ma in compenso sono chiare le linee del nuovo campo di gioco.
«Sì, aver stabilizzato il quadro delle regole è in sé un dato positivo».
Preso atto che ora l’asticella è più alta, cosa è ragionevolmente possibile fare per attenuare le conseguenze? Non si possono certo sussidiare le aziende che prima sopportavano un dazio X e ora lo hanno visto salire a Y.
« Alcune proposte Confapi le ha messe già sul tavolo. La prima riguarda la Ue. Chiediamo un cambio rapido delle normative che, finalizzate a obiettivi in sé apprezzabili come la ‘neutralità climatica’ da raggiungere entro il 2050, si traducono in costi notevoli per le aziende. Sono i cosiddetti dazi autoimposti... ».
In altre parole, la protezione dell’ambiente - sintetizzato nel Green Deal oggetto di scontro ciclico a Bruxelles - dovrebbe attendere. Sarebbe una scelta pesante.
« Non diciamo di cancellare gli obiettivi, diciamo di sospendere la tempistica di un processo che così com’è ora porta al limite di crisi molte piccole imprese. Parlo soprattutto di queste perché i grandi protagonisti dell’industria hanno spalle larghe, a cominciare dall’accesso al credito».
A quale porta avete bussato per ottenere la moratoria del Green Deal?
« Abbiamo sollecitato il governo, durante la maxi riunione con le categorie imprenditoriali convocata dal ministro degli Esteri Tajani all’indomani del patto Trump-Von der Leyen. Sempre in quella sede abbiamo proposto una seconda cosa, di competenza esclusiva dell’Italia ».
Di cosa si tratta?
« Bisogna sapere che l’export dell’Italia è per oltre la metà fatto da piccole e medie imprese. Negli Usa buona parte dei margini di guadagno vengono erosi dalle commissioni versate ai distributori locali. Proponiamo di aggirare questa specie di dogana-bis creando degli hub logistici per i nostri esportatori. un obiettivo che a medio termine il nostro sistema-Paese può realizzare. Così gli esportatori recupererebbero in parte ciò che perderanno con il 15% di dazi alla frontiera».
Presidente Camisa, quali sono i settori più esposti al rischio di perdere quote di mercato?
« Macchinari industriali e agroalimentare. Soltanto la componentistica per le automobili ne avrà un vantaggio: lì i dazi erano al 27,5% e quindi scendono. Gli Stati Uniti assorbono da soli il 10% dell’export italiano, valore 65 miliardi. Alcune previsioni stimano in futuro mancate vendite pari a 23 miliardi. Sono cifre che rendono l’idea della posta in gioco».
Posta altissima in effetti. Anche per questo forse dall’affinità politicoideologica della nostra premier verso Trump, dal suo ostentato rapporto preferenziale, poteva venirne un atteggiamento più ‘sfidante’ nei confronti dell’amico-rivale. Invece Meloni non ha mai azzardato un passo di traverso per non rompere l’idillio tra sovranisti, per la verità di ben differente stazza.
« Il compito di Giorgia Meloni è molto complicato. Una settimana dopo l’annuncio dei dazi disse a noi rappresentanti delle imprese che sarebbe andata da Trump. Insomma ci ha provato, a modo suo. Non mi sento di criticarla. Faccio notare che anche chi è stato più ruvido, intendo la Francia di Macron, non ne è uscito meglio. La verità è che la materia dazi rientra nelle competenze dell’Europa e ai singoli Stati non spettano spazi per negoziati separati ».
Infatti la stessa Meloni ha accantonato il sovranismo e, convinta o no che ne fosse fino in fondo, ha tifato per quella Ue tantissime volte additata come intralcio. E in ogni caso sarebbe stato bizzarro che ognuno dei 27 Paesi della Ue avesse trattato per conto suo, non crede?
«Con la crescita dei Paesi emergenti, l’appartenenza all’Unione europea è una cintura di sicurezza. Ci ha protetti in fasi molto critiche per il nostro Paese, questo non va dimenticato. E tuttavia direi così: l’Europa è un bene ma lo resterà a patto di migliorarla. C’è troppa burocrazia. Inoltre mi chiedo - sapendo che siamo in un campo molto teorico - se la coesione della Ue non si possa conciliare con una qualche ‘flessibilità’ riconosciuta ai singoli Stati».
Torniamo al conto che dovremo pagare. Il ministro dell’Economia Giorgetti ha stimato in uno 0,5 di Pil in meno l’effetto dazi. Sembra niente agli occhi dei profani, ma già la crescita era bassa e quindi poco non sarà. Lei vede rischi maggiori? Possono toccare l’occupazione?
«Le nostre stime sono più pessimistiche. Tuttavia non credo che il rallentamento dell’export creerà problemi all’occupazione. Ricordo che un anno fa molte aziende faticavano a trovare lavoratori da assumere ».
Infine, presidente Camisa, parliamo della nostra Piacenza. Finora le reazioni del nostro territorio sono state nel segno di una certa compostezza. Sotto pelle c’è una preoccupazione nascosta oppure gli imprenditori piacentini sanno di potercela fare anche stavolta?
«Penso che sia più vera la seconda interpretazione. La qualità elevata dei prodotti piacentini dell’agroalimentare - Grana Padano e vini in particolare - fa sì che il rischio dell’incremento di prezzo non si traduca automaticamente in perdita di clientela. Lo stesso si può dire per l’eccellenza tecnologica delle macchine per industria. Ma bisogna che a livello nazionale e europeo si diano segnali rapidi per mitigare i maggiori costi che i dazi caricano sulle spalle delle aziende».